sabato 8 novembre 2014

Dylan, la pietra rotolante



Dylan: "Si era venduto a Dio. Il che vuol dire che ne aveva ricevuto il comandamento di spargere la sua bellezza quanto più in largo possibile. Vedere se la grande arte poteva essere realizzata attraverso un juke-box costituiva una sfida, ma egli dimostrò che era in grado di farlo. Ma col suo aiuto e basta?                                                        (Allen Ginsberg)

 The flowing pop 
rock         Dylan

         di Matteo Tassinari
Agli inizi degli anni Sessanta le canzoni di Dylan caddero come una pioggia di folgorazioni poetiche su un mondo in attesa messianica. Il suo personaggio era perfetto: scabro, indipendente, non compromesso, ribelle, diverso, geniale, potremmo dire in odore di santità, un antidivo perfetto per incarnare il nuovo volto del mondo giovanile.
Con lui il rock'n'roll, impara a parlare una nuova lingua. Prima erano solo blues suede shoes, hey Paula, come on baby, fumo negli occhi, unchain melody, palle di fuoco, balbettii, turbamenti adolescenziali, rivolte fatte di popcorn e drive-in, After e before Dylan. Ascoltare la sua voce equivaleva a una rivelazione per quei tempi. C'era qualcuno, da qualche parte nel mondo, che sapeva. Era un nuovo dettame, uno spiegazzato velluto folk che prendeva possesso del mondo, una travolgente letteratura per un nuovo pianeta.
Dylan '70 anni fa
Con le sue canzoni
Dylan
ebbe un effetto portentoso. Per la prima volta qualcuno diceva ai ragazzi: sedetevi e ascoltate. Non c'era da ballare, da battere le mani, non c'era da palpare il fondoschiena delle ragazze, bisognava solo sedersi e ascoltare.
In attesa
C'era qualcosa di importante e di urgente. Dylan era un predestinato. Per tutti gli anni '60 ogni suo gesto fu un modello, un archetipo, un manifesto, una porta aperta verso impreviste possibilità. E non smise di stupire. Aveva appena incantato il mondo come un pifferaio acustico, come un mago della poesia folk e subito ruppe ancora altri tabù.

"Sono Dylan soltanto quando devo esserlo,
il resto del tempo sono me stesso"
Stato         di grazia?
Abbracciò una chitarra elettrica, roteò stralunatogli occhi, allungò i capelli in cespugli spiritati. Un altro schiaffo. A un ritmo vertiginoso incise canzoni abbacinanti e ben presto realizzò un disco che avrebbe cambiato il volto del rock: Highway 6r Revisited. Nacque in un momento di grazia, veloce e miracoloso. Il disco ha un sapore di immediatezza, di bruciante urgenza espressiva. Il che contrasta con altri dischi che ebbero in quel periodo un impatto paragonabile. Erano come due vie, integrabili e complementari, due facce della stessa medaglia. In fondo Revolver e Sgt. Pepper' 5 fecero scoprire le infinite possibilità dello studio di incisione. Erano musiche in quel momento non eseguibili dal vivo. Dylan era all'opposto, produsse un terremoto, un'onda d'urto le cui scosse agitarono per anni l'immaginario del rock, ma senza alcun artificio: nuda, grezza poesia da dare in pasto al mondo. Per Allan Zimmerman (vero nome di Dyaln) era un periodo frenetico, caotico e incassava un tot.

Febbre vitale

Mr. Tambourine      Man
Dylan,     prima del grande ritiro, viveva a suo modo gli eccessi dello star system, intanto perché era seguito maniacalmente dai media e dai fan, prendeva droghe di tutti i tipi, frequentava molte donne, lavorava di continuo, rilasciava deliranti interviste in cui si prendeva gioco dell'intervistatore. Uno stato febbrile, compulsivo, traboccante di idee. Erano altri tempi, è ovvio, ma in un certo senso erano “i” tempi, e il I965 era il centro del ciclone temporale che stava spazzando il mondo.
Highway
fu uno shock,
una tromba d'aria che dava benzina al tornado generazionale, malgrado la svolta dell'enfant prodige del nuovo folk fosse stata già annunciata. L'elettrica Subterranean Homesick Blues stava entrando nella top ten, i Byrds avevano appena inciso in una nuvola di cristallina elettricità la poetica di Mr. Tambourine Man, Eppure l'immagine acustica di Dylan continuava a imperare.

Neanche quell'inferno distolse Dylan dai suoi propositi. La lavorazione del disco andò avanti con ancora più vigore. Parole, appunto, forsennate, enigmatiche, spiazzanti, sciarade del pensiero, deviazioni, invenzioni tempestose, accostamenti blasfemi, ma si farebbe un torto al Dylan di quegli anni se, travolti dal fascino del linguaggio, non si mettesse in evidenza un altro elemento. A riascoltare oggi quelle canzoni stupisce soprattutto l'inarrivabile grandezza del cantante. Ben lontano dalla garrula, strascicata cadenza di oggi, in quegli anni Dylan era di una bravura addirittura inquietante, sovrumana, disturbante ma persuasivo, altamente espressivo, un invito costante a sollevare il velo polveroso del conformismo. Non solo Dylan regalò al rock la parola, ma insegnò anche come bisognava cantarla. Bob Dylan è il mito vivente, forse il più importante musicista del ’900. Senza esagerare e senza sminuire il tutto.
Highway 6I Revisited
E' uno dei vertici espressivi del Novecento, inizia col colpo di rullante di Like a RolIing Stone. Una sferzata, un richiamo, una sveglia generazionale. Bruce Springsteen ha raccontato che quel colpo di rullante gli sembrò una chiamata alle armi. Di sicuro tutti ricordano la prima volta che l'hanno ascoltata. John Lennon, come molti altri, rimase a bocca aperta. Fernanda Pivano racconta che la ascoltò in America alla radio, in compagnia di Allen Ginsberg che per un momento sembrò che la realtà si fosse capovolta.
Il poeta Allen Ginsberg
La migliore poesia d'America usciva da una radio. Cosa c'era di più promettente? Il risultato fu esplosivo, un feroce apriva una fluente strada al rock, una mina nel finale: Quando non hai niente da perdere allora sei invisibile, non hai segreti da nascondere. Come ci si sente ad essere da soli, senza una direzione, come un completo sconosciuto come una pietra che rotola? L'incipit è già una dichiarazione di guerra: Once upon a time, you dressed so fine, once upon a time c'era una volta, proprio come nelle favole, ma è una favola storta, senza lieto fine, amara e beffarda. C'è una principessa, ma rotola nel fango, cade dall'alto verso un abisso senza fondo, assapora l'odore dell'asfalto, l'incertezza, l'ombra dei bassifondi.
Lou Reed trentenne


 Anfetaminica
elettricità
La progressione di accordi stabilisce una tensione costante, che si risolve solo in parte nel ritornello ed è pronta a ripartire al nuovo incipit di ogni strofa. A metà tra l'apologo e la ballata, il pezzo sembra un monito, uno schiaffo rivolto alle illusioni della società. Nel ’65 Dylan ruggisce, unico nello stile, trendy per l’epoca come più non puoi. Ruggisce come un predicatore infuriato, furioso contro il mondo dove muore gente per sete e fame. I versi sfioccano come staffilate, frecce precise e implacabili, ammantate di nervosa e anfetaminica elettricità. Il finale è persino arrogante.

"Ora, vorrei scrivere melodie non molto adatte alle vostre orecchie, da far in modo che la vostra pupa non impazzisca, che vi renda facili le cose più orgasmiche, che vi calmi, vi attenui il dolore inutile che avete addosso del vostro superfluo sapere"                                              Bob Dylan
 Il gioco addolorato

Tutti  sapevano

che Dylan stava facendo a pezzi l'idea che una canzone potesse essere un ameno e romantico sottofondo. Nel 1965, Bloomfield, con il suo amico e collega Al Kooper, fu scritturato come sessionman nel celeberrimo album di Bob Dylan Highway 61 Revisited, è scatenato e le immagini si succedono a un ritmo vertiginoso, con la tipica attitudine dylaniana a mischiare il sacro e il profano. Le sue canzoni di questo periodo sono popolate di personaggi inventati, citati, evocati da altre storie e mescolati con effetto dirompente, un cut-up che sembra farsi beffe di storicizzazioni e contesti: Beethoven e Ma Rainey, il re dei Filistei e Galileo, mischiati a personaggi oscuri, zingari selvaggi e donne dalla dubbia reputazione, il tutto alternato da un ritornello che riporta brutalmente il volo surreale delle immagini, alle radici del blues, un bel volo dire.
La cavalcata
   di Tombstone Blues
Esemplare in quanto a equilibrio tra passato e futuro, radici e visioni. Nei passaggi da un pezzo all'altro i toni si alternano con grande sapienza letteraria, non solo musicale. Subito dopo la selvaggia cavalcata di Tombstone Blues, parte la chitarra acustica di It Takes a Lot to Laugh, It Takes a Train to Cry, ironica e indolente, un gioiello di andamento musicale, come la calma dopo una corsa, un joint dopo lo speed. Il ritmo risale con From a Buick 6. Il verso poetico torna sfrontato e cinico. La strana donna con cui vive assomiglia a Bo Diddleye: sapete, se cado morto, lei andrà a mettere una coperta sul mio letto. Poi arriva un altro capolavoro, questa volta squisitamente letterario, nella forma del racconto polemico, dai tratti quasi cinematografici, nei confronti di un personaggio-simbolo, tanto simbolico ed evanescente da poter essere comodamente chiamato Mr Jones, in fondo un uomo qualunque.
Mr. Jones,
     l'uomo qualunque
L'incompetenza    dei
voyeuristi
Ballad of a Thin  Man è invece un'invettiva paradigmatica. Dylan ne approfitta per scaricare tutto il suo disgusto verso la stampa che non capiva e che ridicolizzava nelle interviste e negli incontri con i giornalisti, verso i bolsi analisti del sociale, verso tutti coloro che pretendono di capire e che non capiscono affatto. La violenza del testo è raccapricciante. Ciascuna strofa aggiunge elementi e situazioni, ogni volta conclusi da uno pseudoritornello che è più che altro una conclusione delle strofe.
Ogni incomprensione o distorsione intellettuale
Alla fine Mr Jones fa quasi pena. In fondo sembra un bravo tipo, istruito, pragmatico, volenteroso, ma proprio non capisce. Dalla vita ha inforcato gli occhiali sbagliati. Da questa canzone il personaggio di Mr Jones è diventato l'archetipo del voyeurista incompetente, di chi pretende di interpretare un mondo senza essere in grado di capirlo, è l'esaltazione della bohème artistica, dell'alternativa culturale, più in generale della vita vissuta, dell'autenticità, contro ogni sopruso, l'incomprensione e la distorsione intellettuale.
Tutto sommato c'è un'altera perfidia nel concludere il disco, che consacra al mondo le illimitate, vertiginose possibilità dell'elettricità connessa alla poesia, con un pezzo amaro e totalmente acustico, una carriera intensa e per più di più di mezzo secolo sulla cresta balenando tra poesia, lotta e pace.
Parlo di
 Desolation Row,
ripresa poi anche da Fabrizio De André con un altro titolo: Via della povertà. Fu provata in versione elettrica ma non convinse Dylan. Allora il produttore Bob Johnston propose di far venire a New York un chitarrista molto bravo, Charlie McCoy. Quando questi arrivò, in poco tempo misero a posto la canzone, due chitarre, un'armonica e la voce, e bastarono due take per raggiungere il risultato. Il pezzo sembra fottersene del tempo, è un cupo e caustico mantra di quasi undici minuti e mezzo, ma pare poter durare all'infinito.
Dylan perfeziona i suoi giochi poetici, alterna luci e ombre con inaudita sapienza, ogni strofa apre squarci imprevisti. Il vicolo della desolazione pare un osservatorio speciale, un sinistro periscopio da cui guardare il mondo. Einstein è mascherato da Robin Hood, Cenerentola è una regina per barboni, Ezra Pound e Thomas Stearns Eliot fanno a pugni, il circo è in città e sparge la sua follia tra la gente. È un capolavoro nel capolavoro. Un gioiello di squisita capacità descrittiva, col suo andamento cantilenante, cantato con intima profondità, senza eccessive deformazioni, casomai con umana e terrena malinconia. Dylan chiudeva il disco più sovversivo del momento con l'imprevista confessione di una visione del mondo dolente: Non speditemi più lettere, a meno che non le mandiate da via della povertà.