mercoledì 5 novembre 2014

Il Lupo di Wall Street

Money is time
  Martin, è un      attacco di
tachicardia

di Matteo Tassinari
Molti    secoli fa, alle origini della Storia dello spettacolo e Woody Allen raccontò un sua vicenda, era di norma la catarsi. Meccanismo basato sull'esposizione delle vicende di un personaggio intriso di vizi comuni all'umanità e che attraverso un percorso di personale travaglio purificava se stesso e lo spettatore che in lui si fosse identificato. Venne poi l'epoca dei racconti morali, la gente sbuffava dalla gioia, in cui i delinquenti e depravati per quanto simpatici, finivano catturati e l'ordine costituito regnava sovrano. Minchia! Uscito dal teatro o dal cinema, il pubblico poteva godere di un riposo tranquillo. Cazzo!
The Wolf
Di là
dall'oceano,
gli Americani
giuravano sulla Carta Costituzionale che al risveglio i loro sogni potevano divenire realtà, che ognuno poteva costruirsi da sé il proprio destino con la creatività e con il solo impegno personale, per raggiungere quella felicità che in America è considerato un diritto inviolabile, perché il dolore non deve esistere, e più te lo nascondi e più lui ti terrorizza.
Se gli     americani
parlassero
un poco di più della morte per non trasformarla in un tabù funesto, ma un passaggio vitale, e non la morte del cinema, quella vera, allora abolirebbero la pena di morte. Ne sono certo! Il nuovo film di Scorsese sembra farsi beffa di questi lidi sicuri. La conseguente levata di scudi di alcune parti del pubblico e della critica appare così del tutto preventivabile ed in parte pure giustificata.
The Wolfy of Wall Street,
La Finanza post
anni Ottanta
basata sulla coca
mette in scena la biografia di uno squalo della Finanza, tale Jordan Belfort (Di Caprio) un caricatore per la bile di qualsiasi essere pensante dotato di uno straccio di morale e che grazie alla sua abilità e alla sua spregiudicatezza ventiseienne poteva contare su un'entrata mensile di più di quattro milioni di dollari. Fin qui nulla di nuovo nella cinematografia americana. La straordinaria ascesa di ragazzi del Queens o del Bronx di famiglia modesta è argomento già noto e fa parte dei miti fondanti della società statunitense. Se alla sinossi aggiungiamo altresì che l'obiettivo raggiunto ha seminato sul campo centinaia di morti e feriti non andiamo di nuovo al di fuori del già conosciuto. Scorsese scatena una gigantesca energia cinetica controllata, con uno sfacelo di effetti speciali, fantasie soggettive e una vorticosa coreografia su grande scala. Squarci di sesso e cocaina, alcol come se piovesse e arti speciali dedite all'autoerotismo. Un extralarge, assai large, in quanto a desideri.  

Come le incursioni del cinema (indipendente e hollywoodiano) nella denuncia della spietatezza della Finanza post anni Ottanta sono state molteplici e molte volte puntuali e indignate. Dall'ormai classico Wall Street di Oliver Stone (1987) a Boiler Room (Ben Yonger 2000), fino agli epigoni filosofici del Cosmopolis di Cronenberg per giungere ai documentari di pancia di Michael Moore (Capitalism, a Love Story), Charles Ferguson (Inside job) e  Alex Gibney con Enron, la voce e l'arte dei cineasti si sono levate a scoprire il marcio che pullula dietro le colonne marmoree dello Stock Exchange più famoso del mondo. Che c'è di nuovo nel nuovo film di Scorsese che ha fatto gridare allo scandalo? 



Senza più penne
massacranti come quella di Paul Schrader al fianco di Scorsese per molti anni nei film anni ‘80, questo genio del cinema diviene il cantore del superomismo represso, del maschio medio etero ma anche no, frustrato certo, cattolico anche e per questo scisso mentalmente ad un livello virulento se non patologico, sedotto e lusingato dalla trasgressione, vizio e perversione fino alla caduta nella perdizione. In fondo c’è chi dice Scorsese stesso, sia stato così per lunga parte della sua vita. Senza voler fare i moralisti, il cinema di Martin Scorsese è uno dei più diseducativi del ‘900, mi pare ovvio, ma è anche uno dei più realisti fino alla radicale maniacalità di Kubrick nel rappresentare le proprie realtà attraverso l'arte più totalizzante e totale, la settima. Lo digito con tono neutro e poco condottiero. Si può? Ma cazzo me ne fotte. E anche con rispetto ed ammirazione per chi sa usare il cinema come arma di salivazione di massa.
 Simpatiche  
canaglie
Prima di tutto la presentazione del personaggio, che risulta una canaglia eccessivamente simpatica, tanto da provocare un'identificazione che si può spingere a tratti all'ammirazione completa. La punizione finale, il procedimento penale e il carcere, sono insufficienti a ristabilire una legalità violentata. Dopo una breve pena, il lupo tornerà a ululare agli antipodi in un settore ancor più delicato e pericoloso, che ha a che fare con l'educazione. Il poliziotto dell'FBI che lo tallona fino all'arresto non ha il carisma né il fascino di chi nei film gangsteristici dedicava energie e vita alla capitolazione dei pur seducenti criminali. Il suo allontanarsi su un grigio e sferragliante vagone di cui percepiamo i pestilenziali effluvi di ferodo e sudore, della monotonia e della prostrazione, suona piuttosto come una sconfitta esistenziale. Il contrasto con i roboanti colori del vizio, raggiunge qui il suo livello massimo.
Un duetto stupendo di Leonardo Di Caprio e Matthew McConaughey

Un film giustamente
amorale
E questo   è  il secondo nodo spinoso. Ma soprattutto si tratta del fatto che The Wolf of Wall Street è un film palesemente amorale, che mette in scena senza zuccherini né veli la depravazione nell'evidenza delle sue molteplici sfaccettature. Scorsese non risparmia orge, piste di cocaina, alcol forte, guida in stato di ebbrezza, pasticche e coma lisergici, onanismo, vilipendio della legislazione, disprezzo della gente comune, sulla cui frode è costruita la fortuna di Belfort e dei suoi mille brokers esaltati ed eccitati dalla polvere che non lascia polvere. Il sommario del film è già contenuto nelle "istruzioni per l'uso" che il capo McConaughey declama, in un meraviglioso cameo, la prima giornata di lavoro del nostro protagonista. Cinematograficamente parlando, la pellicola è un vero e proprio gioiello.


Wall Street
Ad ogni  sequenza il regista s'inventa fantasmagoriche soluzioni narrative, angolazioni e movimenti di macchina, ricorrendo a tutte le possibili strategie, sia nella manipolazione dei tempi filmici, sia nella moltiplicazione dei punti di vista. I dettagli si accumulano paratatticamente; ognuno diviene segno di un mondo, di un modo di essere. Il montaggio sostiene col ritmo una prolissità (179 minuti) che non si avverte in sala. Scorsese ha sempre amato raccontare storie di microcosmi sociali e delle regole che li governano. La società criminale e malata della Finanza è l'altra faccia (più perbenista e patinata) di quella mafiosa dei Goodfellas e di Casinò. Anche in questo milieu dominano ritualità e iniziazioni cruente. L'asservimento dell'altro e il suo annientamento non avvengono più con la violenza delle armi, ma con l'asettico uso dell'apparecchio telefonico, senza nemmeno concedergli la dignità del rapporto diretto. Il venditore di effimero non può che produrre l'effimero.
L'enfasi shakespiriana
di Scorsese

Tutti i film  diretti dal regista di Taxi Driver, sviluppano temi che narrano con autentica  abilità e padronanza dell’arte registica ed enfasi drammaturgica, tutte le parvenze più identiche alla dannazione edonistica per poi lasciarsi andare, verso il finale, a frettolosi momenti di redenzione senza che la macchina da presa. Gli uomini della finanza non sono più uomini d'onore. Il protagonista non esita a tradire il gruppo per il proprio vantaggio e quando, in un rigurgito di benevolenza, mette in guardia almeno il suo più fedele compare, si ritroverà lui stesso a sperimentare il voltafaccia di questi. Il culto dell'autoerotismo, predicato dal personaggio di Matthew McConaughey, supera il lato fisico per assumere il suo risvolto prettamente etimologico, trarre piacere da se stessi soltanto, fino ad accarezzare il delirio di onnipotenza, dietro cui sta acquattata la perdita totale di un senso e di un centro. 

Wall Street è il regno della smaterializzazione, tutto appare per scomparire per ricomparire ma sotto altre sembianze, proprio perché non riesce a liberarsi affatto dalla leggenda (vera) dell’appagamento di ogni desiderio di chi vi lavora, sia chiaro, desideri che lasciano cicatrici in giro e essendone così remissivo e inerte al suo orgasmo perpetuo e continuo. Il venditore di effimero non può che produrre l'effimero. L’eroe non è neppure antieroe. Il degrado è totale. Alla fine possiamo soltanto contemplare il cumulo di macerie in cui si è sbriciolato il sogno americano, il fallimento della società occidentale. "Questa è l'America", rivela allo spettatore il protagonista in un finale correttamente sfasciato.